Povera Eleonora! Eppure io ero innocente. Che potevo fare se mentre le grazie capricciose di sua sorella mi procuravano un piacevole passatempo, in quel povero cuore nasceva una passione? Ma... sono proprio del tutto innocente? Non ho forse alimentato i suoi sentimenti? Non mi sono dilettato delle sue sincere, ingenue espressioni che tanto spesso ci facevano ridere, e che erano invece così poco risibili? non ho io... Ah! l'uomo deve sempre piangere su se stesso! Io voglio, caro amico, e te lo prometto, io voglio emendarmi; non voglio più rimuginare quel po' di male che il destino mi manda, come ho fatto finora; voglio godere il presente e voglio che il passato sia per sempre passato. Senza dubbio tu hai ragione, carissimo, i dolori degli uomini sarebbero minori se essi - Dio sa perché siamo fatti così! - se essi non si affaticassero con tanta forza di immaginazione a risuscitare i ricordi del male passato, piuttosto che sopportare un presente privo di cure.
Sarai così buono di dire a mia madre che sbrigherò nel miglior modo possibile i suoi affari e gliene darò notizie quanto prima. Ho parlato con mia zia e non ho affatto trovato in lei quella donna cattiva che da noi si ritiene lei sia. E' una donna ardente, passionale e di ottimo cuore. Le ho reso noti i lamenti di mia madre per la parte di eredità che lei ha trattenuta; me ne ha esposto le ragioni e mi ha detto a quali condizioni sarebbe pronta a rendere tutto, e anche più di quanto noi domandiamo. Basta, non voglio scrivere altro su questo; dì a mia madre che tutto andrà bene. Intanto, a proposito di questa piccola questione, ho osservato che l'incomprensione reciproca e l'indolenza fanno forse più male nel mondo della malignità e della cattiveria. Almeno queste due ultime sono certo più rare.
Del resto io qui mi trovo benissimo; la solitudine è un balsamo prezioso per il mio spirito in questo luogo di paradiso, e questa stagione di giovinezza riscalda potentemente il mio cuore che spesso rabbrividisce. Ogni albero, ogni siepe è un mazzo di fiori e io vorrei essere un maggiolino per librarmi in questo mare di profumi e potervi trovare tutto il mio nutrimento.
La città in se stessa non è bella, ma la circonda un indicibile splendore di natura. Questo spinse il defunto Conte M. a piantare un giardino sopra una delle colline che graziosamente si intrecciano e formano leggiadrissime valli. Il giardino è semplice, e si sente fin dall'entrare che ne tracciò il piano non un abile giardiniere, ma un cuore sensibile che qui voleva godere se stesso. Ho già sparso lacrime su colui che non è più, in quel cadente gabinetto che era un giorno il suo posticino favorito e che ora è il mio. Presto sarò padrone del giardino; il giardiniere mi si è già affezionato in questi pochi giorni e non dovrà pentirsene.
Oh colui che non può partecipare a questi sentimenti, non deve mai essersi dissetato a una fresca fontana dopo una faticosa passeggiata, in un giorno d'estate!
So bene che noi non siamo né possiamo essere tutti uguali; ma ritengo che colui il quale sente il bisogno di allontanarsi dalla cosiddetta plebe per averne il rispetto, è biasimevole quanto un codardo che si nasconda al suo nemico per tema di esserne ucciso.
Di recente andai alla fontana e trovai una giovane donna di servizio che aveva posato il secchio sull'ultimo scalino e guardava intorno per vedere se nessuna compagna venisse e l'aiutasse a posarselo sulla testa.
Io scesi e la guardai. - Posso aiutarvi? - le chiesi. Diventò rossa rossa e disse: - Oh no, signore. - Senza complimenti. - Si aggiustò il cercine e io l'aiutai. Mi ringraziò, e salì per la scala.
Del resto è proprio della buonissima gente. Talvolta io mi concedo un momento d'oblio e godo con loro le gioie che all'uomo sono concesse: sedere a una parca mensa con animo aperto e cordiale, fare una gita, disporre una ritmica danza, e simili cose; questo esercita allora su di me una benefica influenza: soltanto io non devo pensare a tante altre forze che sono latenti in me, e si corrompono inutilizzate, e che io devo accuratamente nascondere. Il mio cuore ne è angosciato. Ma, pure, essere incompresi è la sorte di tutti noi.
Se fosse qui l'amica della mia giovinezza, se io l'avessi conosciuta! Ma dovrei dire a me stesso: tu sei un pazzo, tu cerchi ciò che in nessun luogo si può trovare! Ma io l'ho avuta; ho sentito il suo cuore, la sua grande anima, e, al suo cospetto, mi sembrava di esser più di quello che io ero, perché ero tutto ciò che potevo essere.
Buon Dio! c'era allora una sola forza della mia anima che rimanesse inattiva? non potevo io forse spiegare tutto il mirabile sentimento col quale il mio cuore comprende la natura? Non erano forse i nostri colloqui un eterno intrecciarsi del più elevato sentimento e del più acuto INTELLETTO, di cui le gradazioni fino a quelle del mal garbo erano segnate dall'orma del genio? E ora! La sua età, più grave della mia, l'ha condotta alla tomba più presto di me, e io non dimenticherò mai il suo forte sentire e la sua divina tolleranza.
Da pochi giorni ho incontrato un giovane B., dall'aspetto simpatico e aperto. Esce ora dall'Università, non si ritiene un dotto, ma crede di saperne più degli altri. Infatti per quel che ho potuto capire si è applicato a studi di ogni sorta e ha notevoli cognizioni.
Appena ha saputo che io disegno molto e che so il greco (due cose miracolose in questo paese), è venuto da me e ha fatto pompa di molta sapienza, da Batteux a Wood, da de Piles a Winkelmann; mi ha assicurato che egli ha letto tutta la prima parte della teoria di Sulzer, e che possiede un manoscritto di Heine sullo studio dell'antichità. Io l'ho laciato dire.
Ho fatto conoscenza con un'altra brava persona: il borgomastro, uomo leale e schietto. Pare sia una vera gioia spirituale vederlo tra i suoi figli; ne ha nove, e specialmente si dice un gran bene della figliola maggiore. Mi ha pregato di andarlo a visitare e vi andrò uno di questi giorni. Abita in una tenuta di caccia del principe, a un'ora e mezzo da qui: dopo la morte di sua moglie ha avuto il permesso di ritirarvisi perché il soggiorno in città e nella casa comunale gli faceva troppo male. Inoltre ho incontrato degli originali in cui tutto è spiacevole, e sopratttutto insopportabili sono le manifestazioni di amicizia.
Addio; questa lettera, tutta storica, ti piacerà!
Tutti i più sapienti istitutori e maestri sono d'accordo nel dire che i fanciulli non sanno perché VOGLIONO; ma anche i grandi, simili ai fanciulli, barcollano su questa terra e, come quelli che non sanno donde vengono e dove vanno, non agiscono secondo uno scopo determinato e si lasciano governare da biscotti e dolci e vergate; questo invece nessuno lo vuol credere, eppure a me sembra sia una verità da toccare con mano.
Ammetto, perché so quali obiezioni tu potresti farmi, che sono proprio i più felici coloro che vivono giorno per giorno come i bambini, portando a spasso le bambole che vestono e spogliano, girando con gran rispetto intorno alla dispensa dove la mamma ha rinchiuso il pan dolce, e quando infine riescono a ottenere la ghiottoneria desiderata, la divorano e con la bocca piena gridano: ancora! Queste sono felici creature! E anche sono felici coloro che danno splendidi nomi alle loro frivole occupazioni o alle loro passioni e fanno credere al genere umano che siano queste opere gigantesche, dedicate alla sua salvezza e alla sua prosperità.
Felice chi può vivere così! Ma chi umilmente riconosce a che cosa tutto questo conduce, chi vede come ogni savio borghese possa, secondo che gli aggrada, trasformare il suo giardino in un paradiso, e come anche l'infelice continui il suo cammino sotto i fardelli e tutti siano egualmente interessati a vedere per un minuto di più la luce del sole, colui pure è tranquillo e forma il suo mondo in se stesso, ed è felice, perché è un uomo. E per quanto limitati siano i suoi confini, egli custodisce pur sempre nel cuore il sentimento della libertà e sente di potere, quando volesse, abbandonare questo carcere.
Circa a un'ora dalla città vi è un luogo chiamato Wahleim (nota dell'autore: il lettore non si dia pena di ricercare i luoghi qui nominati: si è creduto necessario di cambiare i veri nomi che si trovano nell'originale. Fine della nota). La sua posizione presso una collina è molto interessante e, quando si esce dal villaggio e si va su per un sentiero, si ha il colpo d'occhio di tutta la valle. Una buona ostessa che, pur essendo vecchia, è piacevole e vivace, offre vino, birra e caffè; ma, quello che più importa, sono due tigli che con i loro archi coprono la piccola piazza dinanzi alla chiesa che è circondata da case di contadini, fattorie, castelli. Non potrei facilmente trovare un posticino più intimo e segreto, di modo che dall'osteria faccio portar fuori il mio tavolino e una sedia, e lì bevo il mio caffè e leggo Omero.
La prima volta che per caso capitai sotto i tigli in un bel pomeriggio, trovai il luogo solitario. Tutti erano ai campi: soltanto un fanciullo di circa quattro anni sedeva per terra e fra le gambe ne teneva un altro di forse sei mesi, stringendolo con le braccia al petto in modo da fargli una specie di seggiola; e nonostante la vivacità con la quale egli volgeva attorno i suoi occhi neri, sedeva perfettamente tranquillo. Faceva piacere a vederlo; mi sedetti su un aratro che era lì di fronte e disegnai con vero godimento la scena fraterna. Vi aggiunsi la siepe che era vicina, una porta di fienile e alcune ruote rotte, così com'erano disposte, e dopo un'ora trovai che avevo fatto un disegno ordinato e interessante senza avervi messo nulla di mio. Questo mi ha confermato nel mio proposito di attenermi per l'avvenire unicamente alla natura. Essa soltanto è infinitamente ricca, essa sola forma il grande artista. Si può dir molto in favore delle regole; all'incirca quello che si può dire in lode della società civile: un uomo formatosi secondo le regole non farà mai nulla di assurdo e di cattivo, come chi si modella sulle leggi della buona creanza non sarà mai un vicino insopportabile, né potrà divenire un vero scellerato; ma tutte le regole, si dica quello che si vuole, distruggono il vero sentimento e la vera espressione della natura.
Questo è troppo - dirai tu - esse non fanno che moderare, recidere i rami esuberanti eccetera. Caro amico, devo servirmi di un paragone? E' come l'amore! Un giovane si dedica completamente a una ragazza; passa tutte le ore del giorno presso di lei, usa tutte le sue forze e le sue facoltà per mostrarle che le appartiene interamente. Viene allora un filisteo, un uomo che occupa una carica importante, e gli dice: Mio carissimo signore: amare è umano, ma voi dovete amare virilmente! Dividete le vostre ore, datene alcune al lavoro, e dedicate alla fanciulla che amate quelle che vi restano libere. Contate i vostri averi e, con quello che vi rimane dopo aver provveduto al necessario, non vi proibisco di fare a lei un regalo, ma non troppo spesso, per esempio nel suo giorno natalizio e per il suo onomastico. Se il giovane segue il consiglio, potrà diventare un uomo utile e consiglierei al Principe di dargli un impiego. Ma è finita per il suo amore, e per la sua arte se egli è artista. Oh amici miei! perché il torrente del genio così raramente straripa, così raramente spumeggia in grandi flutti e scuote le vostre anime stupite? Cari amici, è perché sulle due rive abitano dei tranquilli signori, di cui le casette campagnole, le aiuole di tulipani e gli orti sarebbero devastati, ed essi sanno preservarsi dal minaccioso pericolo con argini e fosse costruite in tempo.
«Ho affidato il mio piccino a Filippo - mi disse - e sono andata in città col più grande per comprare pane bianco, zucchero e un tegamino di terra».
Vidi tutto questo nel paniere, di cui era caduto il coperchio.
«Ora voglio cuocere una minestra per stasera al mio Giovanni (era il nome del più piccolo), quel birichino del mio figliolo maggiore mi ha rotto ieri il tegame, disputandosi con Filippo gli avanzi della pappa».
Domandai del maggiore, e lei mi aveva appena detto che era nel prato a correr dietro a due oche, quando il fanciullo arrivò saltellando e portando al secondo un ramo di nocciolo. Mi intrattenni ancora con la donna e seppi che era la figlia del maestro elementare, e che il marito era in viaggio in Svizzera dove si era recato per raccogliere l'eredità di un cugino.
«Volevano ingannarlo - mi disse - e non rispondevano alle sue lettere; così è andato di persona. Purché non gli sia accaduto nulla di male; io non ho avuto sue notizie!».
Mi fece pena staccarmi da quella donna: diedi un soldo a ciascuno dei bimbi, e uno a lei perché comprasse per il piccolo un panino da aggiungere alla pappa, quando sarebbe andata in città.
Ti assicuro, mio caro, che quando non riesco a frenare i miei sensi, calma il mio tumulto la vista di una creatura come questa, che trascorre in una felice tranquillità la stretta cerchia della sua esistenza e vive giorno per giorno, e vede cadere le foglie pensando soltanto che l'inverno si avvicina. Da allora io vado spesso laggiù. I fanciulli hanno fatto amicizia con me, hanno lo zucchero quando io bevo il caffè e la sera dividono con me il pane e burro e il latte quagliato. La domenica non manca mai il loro kreuzer, e se io non mi trovo lì all'ora della preghiera, l'ostessa ha l'ordine di distribuirlo.
Essi sono pieni di espansività, mi raccontano ogni cosa, e io godo specialmente di osservare le loro passioni e l'esplosione dei loro desideri quando si riuniscono molti bambini del villaggio.
Ho durato gran fatica a persuadere la madre la quale temeva che i bambini potessero dar fastidio al SIGNORE.
Se ti aspetti, dopo questo esordio, qualcosa di elevato e di eccezionale, t'inganni. E' semplicemente un contadino che mi ha destato questa viva simpatia. Come al solito io racconterò molto male e, come al solito, io penso, tu mi troverai esagerato: è ancora Wahlheim, e sempre Wahlheim che produce queste meraviglie.
Una comitiva era riunita sotto i tigli a bere il caffè: poiché non mi piaceva gran che, presi un pretesto per rimanere isolato.
Un contadino uscì da una casa vicina e si mise ad accomodare qualcosa all'aratro che io avevo recentemente disegnato. Il suo aspetto mi piacque, gli parlai, gli domandai delle sue condizioni; la conoscenza fu ben presto fatta e, come mi avviene con quella gente, divenne intimità.
Mi raccontò che era al servizio di una vedova e che ne era trattato molto bene. Mi parlò tanto di lei e ne fece tali lodi che io potei subito capire come egli le fosse completamente devoto. Diceva che lei non era più giovane, che il primo marito l'aveva fatta soffrire e che non voleva più sposarsi; dal suo racconto traspariva chiaramente quanto egli la trovasse bella e affascinante, quanto desiderasse di essere prescelto a cancellare il ricordo dei torti del primo marito, e io dovrei ripeterti il suo discorso parola per parola per darti un'idea della pura inclinazione, dell'amore e della fedeltà di quell'uomo. Dovrei possedere le facoltà di un gran poeta per poterti ripetere al vivo l'espressione dei suoi gesti, l'armonia della sua voce e il fuoco che si rivelava nel suo sguardo. No, le parole non potrebbero mai esprimere la tenerezza che si manifestava nel suo essere e nel suo aspetto: sarebbe scialbo, incolore tutto quello che io potrei dire. Specialmente mi commoveva il suo timore che io potessi dubitare della correttezzza dei suoi rapporti con lei. Soltanto nell'intimo dell'anima mia io posso ripetere il fascino da cui ero preso sentendolo parlare dell'aspetto di lei, del suo corpo che lo attirava potentemente e lo avvinceva, pur essendo privo dello splendore della giovinezza. Nella mia vita non mi è mai accaduto di vedere un desiderio, una calda, nostalgica passione accompagnata da tanta purezza; devo dire anzi che non ho saputo neppure pensare e sognare così puramente. Non rimproverarmi se ti dico che al ricordo di quell'innocenza e di quella sincerità d'affetto l'anima mia arde, che mi segue dovunque il ricordo di quella fedeltà e di quella tenerezza e che, come se io stesso fossi innamorato, languisco e mi consumo. Voglio cercare di vederla al più presto... ma piuttosto, pensandoci meglio, voglio evitarla. E' meglio che io la veda attraverso gli occhi di colui che l'ama; forse ai miei propri occhi lei non apparirebbe qual è ora, e perché dovrei guastarmi la bella immagine?
Sarà difficile che io possa raccontarti ordinatamente come ho conosciuto la più deliziosa fra le creature. Sono soddisfatto e contento; e per conseguenza non sono un buono storico.
Un angelo! ahi, questo ognuno lo dice della sua amata. E quindi non so come fare a dirti come lei sia perfetta, perché sia perfetta: in breve lei è riuscita ad avvincere tutto il mio essere.
Una grande purezza si unisce a una grande intelligenza, e la bontà e l'energia, la pace dell'animo e l'amore alla vita attiva armonizzano in lei. Tutte le cose che ti scrivo non sono che chiacchiere inutili e vane astrazioni che non esprimono nulla di quello che lei è. Un'altra volta... no, non un'altra volta, ora subito voglio raccontarti, perché se non lo faccio ora, non mi decido più. Giacché, a dirti la verità, da quando ho cominciato a scriverti, tre volte sono stato sul punto di posare la penna, di far sellare il cavallo e di andar là. Eppure stamattina ho giurato che non andrò oggi, ma vado ogni momento alla finestra per vedere quanto è ancora alto il sole...
Non ho potuto resistere, son dovuto andare. Ora sono di ritorno, Guglielmo, mangerò il pane e burro della mia cena e ti scriverò. Quale gioia è stata per me il vederla nel cerchio vivace di tanti cari fanciulli, i suoi otto fratelli e sorelle!
Se continuo così, alla fine ne saprai quanto in principio; ma ascolta, e io mi sforzerò di venire ai particolari.
Ti scrissi ultimamente che ho conosciuto il consigliere S. e che egli mi ha invitato ad andarlo a trovare nel suo eremitaggio, o meglio nel suo piccolo regno. Io trascurai la cosa e non vi sarei forse mai andato, se il caso non mi avesse indicato quale tesoro si nascondeva in quella tranquilla contrada. I nostri giovanotti avevano organizzato un ballo in campagna, e io pure dovevo prendervi parte. Offrii il braccio a una ragazza buona e bella, ma nell'insieme insignificante, e fu stabilito che io avrei preso una carrozza e che con la mia dama e una cugina saremmo andati al luogo scelto per la festa, prendendo con noi, via facendo, Carlotta S.
- Ora farà conoscenza con una bella signorina - disse la mia compagna, mentre traversavamo la grande foresta diradata per andare verso la casa di caccia - Badi di non innamorarsene! - aggiunse la cugina. - E perché? - dissi io. - E' già promessa - rispose - a un brav'uomo che ora è in viaggio: è andato a mettere in ordine i suoi affari perché il padre è morto, e a procurarsi un buon impiego. -
La notizia mi fu piuttosto indifferente.
Mancava ancora un quarto d'ora perché il sole raggiungesse la montagna, quando arrivammo alla porta della villa.
Era un caldo soffocante, e le signore mostravano qualche preoccupazione per un temporale che alcune nuvole bianche, grige e cupe sembravano far presagire, radunandosi all'orizzonte. Io calmai i loro timori, dandomi l'aria di saper presagire il tempo, benché io stesso temessi che la nostra festa sarebbe stata turbata.
Io ero sceso di carrozza, e una donna, che era venuta alla porta del cortile, ci pregò di scusare un momento, che la signorina Carlotta sarebbe venuta subito. Traversai il cortile, andai verso la casa ben costruita e quando salii la scala esterna e spinsi la porta, si presentò ai miei occhi il più grazioso spettacolo che mai avessi visto. Nella sala d'entrata sei fanciulli dai due ai sei anni si agitavano intorno a una bella giovinetta, di media statura, ornata di una semplice veste bianca con nastri rosa al petto e alle braccia. Aveva in mano un pane nero e tagliava a ciascuno dei piccoli che le erano intorno un pezzo proporzionato all'età e all'appetito; lo porgeva a ognuno gentilmente, e ognuno proferiva il suo spontaneo «Grazie», dopo aver tenuto a lungo le manine in alto, ancor prima che il pane fosse tagliato; poi si allontanavano con la loro merenda saltellando, o alcuni, secondo il loro più tranquillo carattere, si avvicinavano quieti al portone per vedere i forestieri e la carrozza sulla quale doveva montare la loro Carlotta.
«Vi prego di perdonarmi - disse lei - se vi ho dato il fastidio di entrare e se ho fatto attendere le signore. Nel vestirmi e nel dar le disposizioni necessarie alla casa durante la mia assenza, ho dimenticato di dare la merenda ai miei piccoli ed essi vogliono che il pane sia tagliato proprio da me». Balbettai un complimento insignificante; tutta la mia anima era presa dal suo aspetto, dal suono della sua voce, dal suo portamento, ed ero appena rinvenuto dalla sorpresa quando lei corse nella sua camera a prendere i guanti e il ventaglio. I bambini mi guardavano e stavano da parte, a una certa distanza; mi avvicinai al più piccolo: un bellissimo bimbo, che si ritrasse da me, proprio quando Carlotta rientrava. Lei gli disse: «Luigi, dai la mano a quel signore, tuo cugino». Il bimbo obbedì graziosamente, e io non potei fare a meno di abbracciarlo, nonostante il suo nasino imbrattato. «Cugino?» dissi io, mentre le porgevo la mano, «credete che io sia degno della gioia di esser vostro parente? - Oh», disse lei, con un arguto sorriso, «la nostra parentela è molto estesa; mi dispiacerebbe che voi foste il peggiore di tutti!».
Scendendo diede a Sofia, una fanciulla di circa undici anni, la maggiore dopo di lei, l'incombenza di badare ai più piccoli e di salutare il padre quando fosse ritornato dalla sua cavalcata. Ai piccoli raccomandò di ubbidire a Sofia come avrebbero obbedito a lei, ed alcuni lo promisero sinceramente. Ma una piccola impertinente di circa sei anni disse: - Ma non sei tu, Carlottina, e noi preferiamo quando sei tu! - I due ragazzi più grandi si erano arrampicati sulla vettura e, alla mia preghiera, la sorella permise loro di accompagnarci fino al limite della foresta, se promettavano di non farsi dispetti e tenersi ben saldi.
Ci eravamo appena seduti e le signore si erano da poco scambiati i saluti e le impressioni sui loro vestiti, e specie sui cappelli, e avevano passato in rivista la compagnia che ci attendeva, quando Carlotta fece fermare il cocchiere e scendere i fratelli, i quali vollero baciarle un'altra volta la mano, ciò che il primo fece con tutta la tenerezza con cui avrebbe potuto farlo un ragazzo di quindici anni, e l'altro con vivacità e spensieratezza. Lei salutò ancora una volta i bambini e proseguimmo il cammino.
La cugina le domandò se aveva finito il libro che recentemente le aveva mandato. - No, disse Carlotta, non mi piace e ve lo renderò: anche il precedente non era migliore. - Rimasi meravigliato quando domandai di quali libri si trattava e lei mi rispose... (Nota dell'autore: Si è creduto necessario sopprimere questo passo della lettera per non dare ad alcuno, motivo di lamento. Benché in fondo ogni autore darebbe ben poca importanza al giudizio di una fanciulla e di un giovane. Fine della nota). Trovavo una profonda individualità in tutto ciò che lei diceva e a ogni sua parola vedevo un nuovo fascino, un nuovo raggio del suo spirito brillarle sul viso che si andava animando sempre più, perché lei sentiva che io la comprendevo. «Quando ero più giovane», diceva, «nulla mi dilettava quanto i romanzi. Sa Dio come ero felice se potevo la domenica sedermi in un angolo e seguire con tutto il cuore le vicende liete o tristi di una Miss Jenny. Non nego che ancor oggi questo genere di libri abbia attrattiva per me; ma giacché molto raramente posso prendere in mano un libro, bisogna che esso almeno sia completamente di mio gusto. E l'autore che io preferisco è quello che rappresenta il mio mondo, nel quale tutto avviene come intorno a me, le cui storie mi interessano e mi stanno a cuore come la mia vita domestica, che non è proprio un paradiso, ma che in complesso è una fonte di gioie inesprimibili».
Io facevo sforzi per nascondere la commozione che mi destavano quelle parole. Ma non potei durare a lungo, perché quando la sentii parlare incidentalmente, con profonda verità del VICARIO DI WAKEFIELD di... (Nota dell'autore: Anche qui sono stati tralasciati i nomi di alcuni autori nazionali. Quelli che godono il favore di Carlotta lo sentiranno nel proprio cuore, se leggeranno questa pagina, e del resto nessuno ha bisogno di conoscere i gusti di lei. Fine della nota), non potei più trattenermi, le dissi tutto quello che mi venne in mente, e solo qualche tempo dopo, quando Carlotta rivolse la parola alle altre, osservai che per tutto quel tempo erano rimaste con gli occhi spalancati, come se si fossero trovate in un altro mondo. La cugina mi guardava con aria canzonatoria, ma non me ne importava nulla.
La conversazione cadde poi sui piaceri della danza.
- Se pure questa passione è colpevole, disse Carlotta, confesso che non c'è cosa al mondo che io metta al di sopra del ballo. E se mi passa qualcosa di triste per la testa, basta che io strimpelli una contradanza sul mio piano scordato e subito mi torna il buon umore. -
Durante la conversazione quanto mi beavo dei suoi occhi neri! E come le sue vivide labbra e le sue fresche guance deliziavano tutta la mia anima! Ed ero così preso dall'alto significato dei suoi discorsi che non udivo le parole con le quali si esprimeva - e tu che mi conosci puoi farti un idea di questo. -
In breve scesi di carrozza come in preda a un sogno, quando ci fermammo davanti alla casa della festa, ed ero così perduto nelle mie fantasticherie, tra i bagliori del crepuscolo, che appena sentii la musica il cui suono scendeva fino a noi dalla sala illuminata.
Il signor Audran e un certo N. N... - come si può ricordare tutti i nomi? - che erano i ballerini della cugina e di Carlotta ci ricevettero allo sportello della carrozza, s'impadronirono ciascuno della sua dama, e io condussi di sopra la mia.
Cominciammo a ballare il minuetto: io invitai una signora dopo l'altra, e proprio quelle che avevano meno grazia non si decidevano mai a porgere la mano e a finire il ballo. Carlotta e il suo cavaliere cominciarono una danza inglese e tu puoi immaginare quale fu la mia gioia quando dovemmo metterci in figura con lei!
Metteva nel ballo l'anima e il cuore, il suo corpo si muoveva armonioso, lei era spensierata e ingenua come se non pensasse, non sentisse che la danza; e certo in quel momento ogni altra cosa era sparita per lei.
La pregai di concedermi la seconda contradanza; mi promise la terza e, con la più grande franchezza, mi disse che amava molto il valzer. «L'uso vuole che per il valzer ogni cavaliere resti con la sua dama, ma il mio balla male, e mi sarà grato se gli risparmierò questa fatica. La vostra ballerina è nelle stesse condizioni e invece ho visto nella danza inglese che voi siete molto abile; se volete dunque ballare il valzer con me, andate a chiedermi al mio cavaliere, e io m'intenderò con la vostra dama».
Le diedi allora la mano, e fu deciso che nel frattempo il suo cavaliere avrebbe tenuto compagnia alla mia ballerina.
Via dunque! Ci divertimmo dapprima a intrecciare variamente le braccia. Con quale grazia e leggerezza lei si muoveva! Venne poi il momento di cominciare il valzer; le coppie cominciarono a girare le une intorno alle altre come sfere celesti, e ci fu un po' di confusione perché pochi sanno ballare bene. Noi fummo prudenti e lasciammo sfogare gli altri; poi quando i meno abili ballerini ebbero lasciato libero il campo, ci mettemmo in lizza con un'altra valida coppia: Audran e la sua dama. Non sono mai stato così abile e leggero: non ero più un uomo. Avere fra le braccia un'amabile creatura, girare con lei in un turbine come la tempesta, e non veder più niente intorno a sé... Per dirti la verità, Guglielmo, ho giurato che se amassi una fanciulla e aspirassi a lei, dovrebbe ballare il valzer soltanto con me e non con altri, a qualunque costo. Tu mi capisci, è vero?
Facemmo qualche giro, camminando per la sala, per riprendere fiato. Poi lei sedette, e le arance che avevo messo da parte, le sole che mi restavano, ci furono utilissime... soltanto, io mi sentivo il cuore trafitto quando, per complimento, lei offriva uno spicchio a una vicina indiscreta.
Alla terza danza inglese, noi formavamo la seconda coppia. Mentre seguivamo la colonna danzante e io (Dio sa con quale gioia) pendevo dal suo braccio e dal suo sguardo, dove brillava la più sincera e pura espressione di piacere, arrivammo presso una signora che avevo già osservato per il suo aspetto piacente benché non fosse più giovane. Guardò Carlotta sorridendo, alzò un dito in atto minaccioso e, passando, pronunziò due volte il nome di Alberto in tono significativo.
Chi è Alberto? se non sono indiscreto, chiesi a Carlotta. Lei stava per rispondermi, ma dovemmo separarci per formare una catena di otto, e mi parve scorgere, quando c'incontrammo, l'ombra di una preoccupazione sulla sua fronte. Quando mi diede la mano per la PROMENADE, disse: «Perché dovrei nascondervelo? Alberto è un onest'uomo al quale sono quasi promessa». Non era una novità per me: le ragazze me lo avevano detto lungo il cammino, eppure mi parve una notizia inattesa perché non l'avevo considerata in rapporto a lei che in pochi minuti mi era diventata tanto cara.
In breve, mi confusi, fui smemorato, mi trovai in mezzo a un'altra coppia, guastai ogni cosa, e ci volle la presenza di spirito di Carlotta che mi tirava di qua e di là per ristabilire l'ordine al più presto.
Il ballo non era ancora finito quando i lampi, che da molto tempo vedevamo brillare all'orizzonte e che sempre avevo dati per lampi di calore, si fecero più frequenti e il tuono coprì il suono della musica. Tre dame fuggirono, e i loro cavalieri le seguirono: il disordine divenne generale e la musica cessò. Quando una disgrazia o qualche cosa di spaventoso ci coglie immersi nel piacere, esso produce naturalmente in noi una forte impressione, in parte a causa del contrasto che ce lo fa sentire più vivo, in parte perché i nostri sensi sono aperti alle emozioni e ricevono più rapidamente ogni impressione. A questo io devo attribuire lo strano contegno al quale vidi abbandonarsi molte signore. La più saggia si mise in un angolo, volgendo la schiena alla finestra e turandosi le orecchie; un'altra s'inginocchiò davanti a lei e le nascose la testa sul grembo; una terza venne tra loro due e abbracciò la sorellina in un torrente di lacrime. Alcune volevano ritornare a casa; altre non sapevano più quello che facevano e non avevano sufficiente presenza di spirito per tenere a freno i giovani storditi che sembravano molto occupati a raccogliere dalle labbra delle belle tremanti le angosciose preghiere che esse levavano al cielo. Alcuni signori erano scesi per fumare in pace la loro pipa, e il resto della compagnia accettò il saggio invito dell'ostessa che ci offriva una stanza fornita di imposte e di tende. Appena vi fummo entrati Carlotta si occupò di disporre le sedie in circolo e quando, assecondando la sua preghiera, tutti ebbero preso posto, lei cominciò a spiegare un gioco. Vidi parecchi cavalieri che, nella speranza di un pegno gustoso, avevano l'acquolina in bocca e tendevano le loro membra.
- Giochiamo a contare, disse Carlotta, e ora attenzione! Io andrò in giro da destra a sinistra e voi conterete uno dopo l'altro, ciascuno il numero che gli toccherà, il computo deve essere rapido come il lampo, e chi esita o si sbaglia ha uno schiaffo... e così fino a mille. - Era divertente a vedersi. Lei camminava in circolo, col braccio teso. «Uno» disse il primo, «due» continuò il secondo, «tre» il seguente, e così di seguito. Poi lei cominciò ad andare in fretta e sempre più in fretta: Uno si sbaglia: Paf! uno schiaffo e, poiché il vicino ride, anche Paf! E sempre più in fretta. Io stesso ebbi due colpi e, con segreto piacere, mi parve che erano più forti di quelli che dava agli altri. Uno scoppio generale di risate e di chiasso pose fine al gioco prima che si arrivasse a mille. Gli amici fra di loro più intimi si tirarono da parte insieme; il temporale era cessato e io seguii Carlotta nella sala.
Via facendo mi disse: «Con gli schiaffi hanno dimenticato il temporale e tutto il resto!». Non seppi rispondere nulla, ma lei continuò: «Io ero una delle più paurose, ma nel farmi forza per dar coraggio agli altri sono diventata coraggiosa io stessa».
Ci avvicinammo alla finestra: tuonava in lontananza, una benefica pioggia cadeva sulla campagna e i più soavi profumi salivano fino a noi nell'aria tiepida. Carlotta si appoggiava col gomito alla finestra, il suo sguardo errava sui campi, si levava al cielo, poi si posava su di me, io vidi i suoi occhi pieni di lacrime, lei posò la sua mano sulla mia e disse: Klopstock! Io ricordai l'ode sublime cui lei pensava in quel momento e mi immersi nel torrente di sensazioni che la sua parola aveva destato in me. Non potei trattenermi, mi chinai sulla sua mano e gliela baciai inondandola di dolci lacrime. E la guardai ancora negli occhi! Nobile poeta, se tu avessi potuto vedere in quello sguardo la tua apoteosi! e se io potessi ora non sentir più pronunciare il tuo nome così spesso profanato.
Non ti ho ancora raccontato quello che accadde al nostro ritorno dal ballo e anche oggi non ne ho il tempo.
L'aurora era splendida; intorno a noi si stendevano i campi rinfrescati e la foresta stillante. Le nostre compagne di viaggio si assopirono; mi domandò se volevo anch'io fare altrettanto, dicendomi di non trattenermi per lei. «Finché vedrò questi occhi aperti, le dissi fissandola, non corro rischio di addormentarmi». E rimanemmo entrambi svegli fino alla porta di casa sua, che la cameriera venne ad aprire silenziosamente: alla domanda di Carlotta, lei disse che il padre e i bambini stavano bene, e che tutti dormivano ancora. La lasciai, pregandola di permettermi di andarla a vedere il giorno stesso: acconsentì, e io andai: da allora il sole, la luna e le stelle possono tranquillamente seguire il loro corso: io non so se sia giorno o notte, e tutto il mondo scompare intorno a me.
Caro Guglielmo, ho tanto meditato sul desiderio degli uomini di allontanarsi, di fare nuove scoperte, di percorrere il mondo, poi un impulso segreto limita il loro cammino, li spinge sulla via tracciata dall'abitudine, ed essi non si curano più di quel che avviene a destra e a sinistra.
E' strano: quando sono venuto qui e, dall'alto della collina, guardavo la bella vallata, essa da ogni parte mi attirava: là è il boschetto! Oh potessi tu immergerti nella sua ombra! Lassù è la cima del monte! Ah potessi tu da lì contemplare la vasta contrada! E la catena di colline, e le valli piene di mistero! Oh potessi perdermi nel loro seno! E correvo lontano, e ritornavo, senza aver trovato quello che cercavo. E qual'è la distanza, tale è l'avvenire! Un vasto panorama dai contorni confusi ci sta dinanzi all'anima: i nostri sensi come i nostri sguardi si perdono in esso, e con tutto il nostro essere noi aspiriamo alla voluttà di provare un unico, grande, potente sentimento. E quando abbiamo corso, quando il LAGGIU' è divenuto il QUI, tutto è come prima, noi siamo nella nostra povertà, negli angusti confini che prima ci chiudevano, e l'anima sospira il sollievo che le sfugge.
Così il più irrequieto vagabondo desidera infine la sua patria e trova nella sua capanna, nel seno della sua sposa, nella schiera dei suoi bambini, nel lavoro compiuto per loro, la gioia che invano ha cercato nel lontano mondo.
Quando la mattina al levar del sole io esco per recarmi al mio Wahlheim e lì nel giardino colgo da me stesso i piselli, poi mi siedo e li sgrano mentre leggo Omero; quando scelgo un pentolino nella cucina, taglio il burro, metto i piselli al fuoco, li copro, e siedo lì vicino per poterli di tanto in tanto rigirare, allora io capisco perfettamente come i superbi pretendenti di Penelope uccidessero buoi e maiali, li facessero a pezzi e li arrostissero. Nulla mi dà una così sincera e profonda sensazione di pace come i tratti di vita patriarcale che, ringraziando il Signore, posso senza affettazione introdurre nella mia vita.
Mi fa bene vedere che il mio cuore può gustare la semplice, innocente gioia data all'uomo che porta alla sua tavola un cavolo che egli stesso ha piantato, e gode non solo del cavolo, ma di tanti bei giorni: della bella mattina in cui lo ha piantato, delle dolci sere in cui lo innaffiava e con gioia ne sorvegliava il progresso crescente: tutto in quello stesso istante gli rinnova il godimento.
Sì, mio caro Guglielmo, i bambini sono particolarmente cari al mio cuore. Quando li osservo, e vedo in quei piccoli esseri il germe di ogni virtù e di ogni forza che un giorno sarà loro necessaria, quando nell'ostinazione io scopro la futura costanza e fermezza di carattere, nella vivacità il buon umore e la facilità con la quale passeranno fra i pericoli della vita... e tutto questo così puro e completo, sempre io ripeto le auree parole del Maestro degli uomini: guai a voi se non diverrete come uno di costoro! Eppure noi trattiamo come sudditi questi che sono nostri simili e che dovrebbero essere i nostri modelli. Essi non devono avere nessuna volontà... E noi forse non ne abbiamo? e perché dobbiamo essere privilegiati? Forse perché siamo più vecchi e più abili? Buon Dio, dal tuo cielo tu non vedi che vecchi e bambini, niente altro! e tuo figlio da lungo tempo ci ha detto quali ti danno maggiore gioia. Ma essi credono in lui e non lo ascoltano - anche questa è cosa vecchia - e formano i loro bambini a loro immagine e somiglianza, e... addio Guglielmo: non voglio a questo proposito delirare di più!
La settimana scorsa andai con lei a far visita al Parroco di San...; è un paesello fra i monti, a un'ora di qui. Arrivammo circa alle quattro; Carlotta aveva preso con sé la sorella minore. Quando entrammo nel cortile della canonica, ombreggiato da due alberi di noce, il buon vecchio sedeva su di una panca dinanzi alla porta di casa, e appena vide Carlotta sembrò rinascere a nuova vita, dimenticò il suo nodoso bastone, e osò muoversi per venirle incontro. Lei corse verso di lui, lo obbligò a sedersi mettendoglisi vicino, gli portò molti saluti del padre, e abbracciò un fanciullo brutto e sudicio, il bimbo più piccolo del pastore, il figlio della sua vecchiaia! E avresti dovuto vedere quale cura prese del vecchio: come alzava la voce perché giungesse chiara al suo orecchio mezzo sordo, come gli raccontava di persone giovani e robuste, e pure morte improvvisamente, come gli vantava l'efficacia di Carlsbad lodando la sua decisione di passarvi l'estate e come badava a ripetergli che trovava il suo aspetto migliore e più vivace dell'ultima volta che lo aveva visto. Nel frattempo io avevo presentato i miei omaggi alla moglie del pastore. Il vecchio era del tutto rianimato e poiché io non seppi trattenermi dal lodare i begli alberi di noce che ci davano ombra così grata, egli cominciò, benché con qualche difficoltà, a narrarcene la storia.
«Non sappiamo chi abbia piantato il più vecchio, - disse - chi nomina l'uno e chi l'altro pastore. Ma il più giovane ha proprio l'età di mia moglie: cinquant'anni in ottobre. Suo padre lo piantò la mattina, e lei nacque la sera. Fu il mio predecessore nel presbiterio e non si può dire quanto l'albero gli fosse caro: né lo è meno a me. Mia moglie sedeva su una panca, alla sua ombra, e lavorava di calza, quando io, ventisette anni fa - ero allora un povero studente - entrai per la prima volta in questo cortile».
Carlotta gli domandò di sua figlia; rispose che era andata in un prato vicino, con il signor Schmidt, a vedere gli operai, e il vecchio proseguì il racconto: disse come il suo predecessore avesse preso a volergli bene, e così pure la figlia di lui, e come egli fosse diventato dapprima il suo vicario e poi il suo successore. La storia era appena finita quando la figlia del pastore venne col signor Schmidt, attraversando il giardino: accolse Carlotta con calda espansione, e devo dire che non mi dispiacque affatto: è una brunetta vivace e ben fatta che deve rendere molto piacevole il tempo a chi lo passi con lei in cammpagna. Il suo innamorato (come tale si presentò subito il signor Schmidt) era una persona fine, ma silenziosa, e non volle prender parte alla nostra conversazione, benché Carlotta ve lo spingesse continuamente. E io rimasi turbato, potendo vedere dal suo viso che non per mancanza d'intelligenza egli se ne stava appartato, ma per capriccio e cattivo umore. E questo apparve in seguito anche più evidente, giacché quando passeggiando Federica si trovò con Carlotta e, casualmente, anche con me, il viso di quel signore, già naturalmente bruno, divenne così cupo che era proprio tempo che Carlotta mi tirasse per la manica e mi avvertisse che ero troppo gentile con Federica. Ora, nulla mi urta tanto quanto vedere gli uomini tormentarsi l'un l'altro, specie quando sono giovani che potrebbero godere di tutte le gioie e che invece si amareggiano i pochi giorni buoni concessi e troppo tardi si accorgono della loro irreparabile prodigalità. Questo proprio mi tormenta, e la sera quando ritornammo al presbiterio e fummo seduti attorno a una tavola dove ci servirono del latte, allorché la conversazione cadde sui dolori e le gioie della vita, non potei trattenermi dal cogliere la palla al balzo e parlare con tutta l'anima contro il cattivo umore.
«Spesso noi ci lamentiamo, dissi, perché pochi sono i giorni buoni e molti quelli tristi, ma abbiamo torto, a quel che mi sembra. Se avessimo sempre il cuore aperto e pronto a godere il bene che Dio ogni giorno ci concede, avremmo poi forza sufficiente per sopportare il male quando viene».
- Ma noi non siamo padroni del nostro umore - disse la moglie del pastore - molte volte esso dipende dalla salute! quando si è sofferenti si sta male dovunque. -
Le diedi ragione, ma aggiunsi: - Ebbene, consideriamo la cosa come una malattia, e vediamo se non esistono dei rimedi.
- E' giusto, disse Carlotta, credo che molto dipenda da noi, a giudicare da me stessa. Quando qualcosa mi turba e minaccia di mettermi di cattivo umore, corro in giardino canticchiando qualche ballabile, e tutto passa.
- E' proprio quello che volevo dire, ripresi, avviene per l'umore come per la pigrizia: anzi è proprio una specie di pigrizia. Per natura vi siamo molto inclinati, ma se una volta abbiamo la forza di vincerla, il lavoro ci pare facile e troviamo nell'attività un vero piacere». Federica ascoltava attentamente, e il giovane si rivolse a me dicendo che non si è padroni di se stessi, e che tanto meno si può comandare ai propri sentimenti. «Ma in questo caso, replicai, si tratta di una sensazione spiacevole, di cui ciascuno si libererebbe volentieri; e nessuno sa fin dove arrivano le sue forze se non le ha prima sperimentate: eppure, chi è ammalato, consulterà certo tutti i medici e con grande rassegnazione prenderà le medicine più amare per riacquistare la desiderata salute».
Osservai che il nobile vecchio tendeva l'orecchio per prender parte alla conversazione; allora alzai la voce, e rivolsi a lui il mio discorso: «Si predica contro tanti vizi, dissi, ma ancora non ho sentito dire che dal pergamo si sia levata la voce contro il cattivo umore».
- «Questo tocca ai pastori delle città, disse lui; i contadini non conoscono il cattivo umore; eppure se io lo facessi non sarebbe male: potrebbe se non altro servire di lezione a mia moglie e al signor Sindaco». -
Tutti risero, ed egli pure rise di cuore, finché un colpo di tosse lo prese, e interruppe per un poco il nostro discorso. Poi il giovane prese la parola: «Voi chiamate il cattivo umore un vizio; mi sembra che siate eccessivo».
«A me non sembra, risposi; se qualcosa nuoce a noi stessi e agli altri, merita senz'altro tale nome. Come se non bastasse il non poterci render felici l'un l'altro, dovremmo anche rapirci il piacere che talvolta il nostro cuore sa procurarsi? E trovatemi un uomo di cattivo umore che sia così bravo da nasconderlo, da sopportarlo solo, senza turbare la gioia che lo circonda! O piuttosto non deriva la nostra inquietudine da un'intima coscienza della nostra indegnità, da uno scontento di noi stessi, che sempre si collega con l'invidia e con una pazza vanità? Noi vediamo felici delle persone che non ci debbono la loro felicità, e questo non possiamo sopportarlo!».
Carlotta mi sorrise, vedendo la commozione con la quale parlavo, e una lacrima di Federica mi spinse a continuare: «Guai a coloro, dissi, che si servono dell'influenza che hanno su di un cuore per rapirgli le semplici gioie che esso sa procurare a se stesso! Tutti i doni, tutte le premure della terra non compensano un istante di spontaneo piacere, rapitoci dalla gelosa importunità del nostro tiranno!»
Il mio cuore era gonfio in quel momento; tutti i ricordi del passato si affollavano nell'anima mia, e gli occhi mi si riempivano di lacrime. Tutti ogni giorno dovrebbero dirsi: tu non puoi far altro per i tuoi amici che lasciar loro le gioie che hanno, e render più vivo il loro piacere, godendone con essi. Infatti potresti tu, se il loro animo fosse tormentato da un'angosciosa passione e oppresso dal dolore, versar loro una goccia di balsamo consolatore?
E quando l'ultima più dolorosa malattia sorprenderà la creatura che tu avrai tormentato nel fiore degli anni, e che giacerà in uno stato di compassionevole esaurimento, quando il suo occhio spento sarà rivolto al cielo e il freddo sudore della morte bagnerà la sua pallida fronte, e tu starai presso il letto come un condannato, con l'intimo sentimento di non poter far nulla nonostante tutto il tuo buon volere, allora una profonda angoscia ti stringerà, pensando che daresti tutto al mondo per poter infondere nella creatura morente una stilla di forza, una scintilla di coraggio!
Il ricordo di una simile scena, alla quale avevo assistito, si risvegliò potente in me mentre pronunciavo queste parole. Mi coprii gli occhi con il fazzoletto, mi allontanai dalla compagnia, e solo la voce di Carlotta che mi chiamava perché era ora di andar via, mi fece rientrare in me stesso. Cammin facendo lei mi rimproverò di prendermela per tutto troppo vivamente; mi disse che questo mi farà morire e che devo aver riguardo di me. Angelo caro! per te, io voglio vivere.
Stetti a vedere con quale ardore la piccola si strofinava le guance con le manine bagnate, fiduciosa che la sorgente miracolosa avrebbe portato via ogni impurità e le avrebbe risparmiato la vergogna di vedersi spuntare una brutta barba; Carlotta diceva: basta, ma la bimba continuava a lavarsi con ardore, pensando che molto era meglio di poco. Ti assicuro, Guglielmo, che non ho mai assistito ad un battesimo con più grande rispetto. E quando Carlotta risalì, volentieri mi sarei prosternato davanti a lei, come dinanzi a un profeta che avesse redento i peccati di una nazione.
La sera, nella gioia del mio cuore, non potei trattenermi dal raccontare il caso a una persona alla quale attribuivo un senso di umanità, perché intelligente: ma come capitai male! Egli mi disse che Carlotta non aveva agito bene, che non bisogna mai far credere ai bambini delle fandonie perché questo dà origine a una quantità di errori e superstizioni dalle quali invece guardare i bambini fin dalla più tenera infanzia. Mi ricordai allora che quell'uomo da otto giorni aveva fatto battezzare un bambino, lasciai cadere il discorso, e rimasi in cuor mio convinto di questa verità: bisogna fare con i bambini come Dio fa con noi: egli non ci rende mai tanto felici come quando ci lascia nell'ebbrezza di una cara illusione!
Parlai con Carlotta dell'incredibile cecità di spirito di un uomo, il quale non si accorge che dev'esserci qualche mistero, se sette fiorini bastano a una spesa che importa il doppio. Ma ho conosciuto delle persone che senza stupore avrebbero tenuto nelle loro case l'inesauribile ampolla d'olio del Profeta.
Mi ama! E come sono divenuto caro a me stesso! a te posso dirlo perché hai l'animo atto a comprendermi. Come mi sento elevato ai miei propri occhi da quando lei mi ama!
E' forse presunzione? o è coscienza dei veri sentimenti che ci uniscono? Io non conosco nessun uomo di cui temere l'influenza sul cuore di Carlotta. Pure quando lei parla del suo fidanzato con tanto calore e con tanto affetto, mi sento come un uomo al quale si sottraggano tutti i suoi onori e le sue dignità, e a cui si porti via la sua spada.
Lei mi è sacra. Ogni desiderio tace alla sua presenza. Non posso dire quello che succede in me quando le sono vicino; mi pare che tutta l'anima si riversi nei miei nervi. Carlotta sa una melodia che suona al pianoforte con un'angelica espressione, con grande semplicità e spirito. E' la sua aria preferita, e appena suona la prima nota, fuggono lontano da me pene, preoccupazioni, capricci.
Sono così preso da quella semplice melodia che non mi pare inverosimile niente di quel che si racconta del fascino della musica antica. E come lei sa cominciarla al momento opportuno, proprio quando starei per tirarmi una palla nella testa. Il cupo turbamento della mia anima si dissipa, e io di nuovo respiro liberamente.
Si racconta che la PIETRA FELSINEA quando rimane un po' esposta al sole, ne raccoglie i raggi e risplende per una parte della notte... Così pareva a me che avvenisse con quel ragazzo. Il pensiero che gli occhi di Carlotta si erano posati sul suo viso, sulle sue guance, sui bottoni del suo vestito, sul colletto del suo soprabito, mi rendeva tutto ciò prezioso e sacro. In quel momento non avrei dato il mio servitore per mille talleri. La sua presenza mi faceva bene: Dio ti guardi dal ridere! Guglielmo, possiamo chiamare illusioni queste, se ci rendono felici?
Mai sono stato più felice, mai il mio sentimento della natura, esteso fino alle pietruzze e ai fili d'erba, è stato più integro e più profondo... eppure, non so come esprimermi; la mia forza di rappresentazione è debole: tutto è mobile e ondeggiante dinanzi a me, e io non posso fissare un contorno; mi immagino che se avessi dell'argilla o della cera saprei ben modellarla. Se dura così, finirò col prendere dell'argilla e darle forma, dovessi anche fare delle palle!
Tre volte ho cominciato il ritratto di Carlotta, e tre volte mi sono vergognato: sono veramente dolente perché prima ero molto felice nel cogliere le somiglianze. Ho fatto invece la sua SILHOUETTE, e bisogna che me ne contenti.
Mia nonna raccontava la storia di un monte magnetico. Le navi che si avvicinavano troppo ad esso perdevano a un tratto tutti i loro ferramenti; i chiodi volavano sulla montagna e i poveri naviganti perivano tra le tavole che precipitavano le une sulle altre.
Intanto non posso negare ad Alberto la mia stima. Il suo aspetto tranquillo contrasta con l'irrequietezza del mio carattere vivace, che non riesco a nascondere. Ha molto sentimento e sa quello che significa possedere Carlotta. Sembra non andar soggetto al cattivo umore e tu sai che questo è il peccato che io odio di più negli uomini.
Egli mi ritiene un uomo di buon senso e l'attaccamento, la calda amicizia che ho per Carlotta, l'interesse che prendo a tutto ciò che fa, rendono più glorioso il suo trionfo ed egli la ama ancor di più. Non so se qualche volta la tormenti con un po' di gelosia e non voglio indagare: se fossi al suo posto questo demonio non mi lascerebbe completamente tranquillo.
Ma in ogni modo la mia gioia di stare presso Carlotta è finita. Devo chiamare ciò pazzia o accecamento! Che importa il nome? è la cosa che conta! Prima che Alberto venisse sapevo già tutto quello che so ora: sapevo che non potevo sperare nulla da lei... e non speravo infatti... almeno per quanto è possibile non desiderare al cospetto di una così affascinante persona. E ora, da povero pazzo, mi meraviglio perché l'altro viene davvero e mi porta via la ragazza.
Io mi adiro e rido della mia miseria, e mi burlo di tutti quelli che mi dicono che devo rassegnarmi poiché la cosa non può andare diversamente. Liberatemi da questi uomini di paglia! Mi aggiro correndo per le foreste e, se incontro Carlotta e Alberto le siede al fianco nel giardinetto, sotto il pergolato, allora non posso più trattenermi, mi sento pazzo e faccio mille stravaganze.
«Per amor di Dio, mi ha detto oggi Carlotta, vi prego, non fate scene come quelle di ieri sera! Siete spaventoso quando siete così allegro!».
A dirla fra noi io calcolo il tempo in cui egli è occupato; subito mi affretto e sono felice quando la trovo sola.
O tu hai speranza in Carlotta - mi dici - o non ne hai affatto: nel primo caso cerca di agire, di arrivare al compimento del tuo desiderio; nel secondo fatti forza e cerca di liberarti da una passione funesta che consuma le tue energie! Mio caro, hai detto bene, ma si fa presto a dirlo!
Puoi tu domandare a un infelice la cui vita si spegne a poco a poco per un'insidiosa malattia, puoi tu chiedergli di troncare con una pugnalata la sorgente della vita? Il male che mina le sue forze non gli toglie nello stesso tempo il coraggio di liberarsene?
Veramente tu potresti rispondermi con un paragone analogo: chi non preferirebbe farsi tagliare un braccio piuttosto che mettere in gioco la vita per indecisione e per timore? Non so... e non vorrei che ci tormentassimo con i paragoni. Pure, Guglielmo, ho qualche volta dei momenti di coraggio improvviso e impetuoso e allora... se soltanto sapessi dove... me ne andrei volentieri.
Non so se ti ho scritto che Alberto si stabilisce qui e avrà a corte, dove è molto ben visto, un posto ben retribuito. Ho visto pochi che lo uguaglino per l'ordine e l'attività negli affari.
Ne scelsi una, ed egli continuò: «da quando la mia previdenza mi ha giocato un brutto tiro, non voglio più avere a che fare con quegli strumenti».
Ero molto curioso di sapere la storia, ed egli raccontò: «Passavo la quarta parte dell'anno presso un amico, in campagna: avevo due pistole scariche e dormivo tranquillo. Una volta, durante un piovoso pomeriggio nel quale sedevo oziando, non so come, pensai che potevamo essere assaliti, che le pistole potessero esserci necessarie e che... basta, tu sai come vanno queste cose. Dò le armi al servitore perché le ripulisca e le carichi: egli si mette a scherzare con le ragazze, vuole spaventarle e, Dio sa come, il colpo parte: la bacchetta che era ancora nella canna colpisce una povera ragazza ai muscoli della mano destra e le spezza il pollice. Ho dovuto ascoltare i lamenti e pagare la cura, e da allora lascio le pistole scariche.
- Mio caro amico, a che cosa serve la previdenza? Il pericolo non si lascia mai vedere per intero! Eppure...».
Ora tu sai che io amo molto Alberto, finché non arriva ai suoi EPPURE: non è cosa di per se stessa evidente che ogni regola ha le sue eccezioni? Ma quell'uomo è così scrupoloso che quando crede di aver detto qualcosa di troppo azzardato o generico, e non completamente vero, non la finisce più di limitare, modificare, di aggiungere o di sopprimere, finché di quanto ha detto non rimane più niente. E in questo caso si sprofondò proprio nel TESTO... io finii col non ascoltarlo più, mi misi a fantasticare, e con gesto rapido mi appoggiai alla fronte la canna della pistola, al di sopra dell'occhio destro. «Ebbene, che significa ciò?», esclamò Alberto strappandomi l'arma di mano. «è scarica», risposi. «E se pure è scarica, che vuol dire questo?» riprese impaziente, «io non posso ammettere che un uomo sia così pazzo da uccidersi: il solo pensiero mi rivolta...»
«Ma voi uomini, esclamai, quando parlate di qualche cosa, dovete sempre dire: è pazza, è savia, è buona, è cattiva! e questo che significa? Avete voi, che dite così, indagato i moventi interni di un'azione? Sapete scoprirne con certezza le cause, e capire perché è avvenuta e perché doveva avvenire? Se l'aveste fatto, non sareste così pronti a giudicare».
«Mi concederai, disse Alberto, che alcune azioni rimangano degne di biasimo, da qualunque motivo siano determinate».
Glielo concessi, scrollando le spalle. Pure continuai: «Vi sono sempre dei casi eccezionali. E' vero che il furto è un delitto. Ma l'uomo che ruba per salvare sé e i suoi che stanno per morire di fame, merita pietà o castigo? Chi scaglierà la prima pietra contro il marito che nella sua giusta collera immola la sua donna infedele e l'indegno seduttore? contro la fanciulla che in un'ora di voluttà si perde nelle indicibili gioie dell'amore? Le stese nostre leggi, fredde e pedanti, si lasciano commuovere e sospendono la loro punizione!»
«Questo non c'entra, replicò Alberto, perché un uomo che è in balìa delle passioni perde ogni forza di ragione, ed è considerato come in preda all'ebbrezza o al delirio».
«Oh le persone ragionevoli!, esclamai sorridendo. Passione! Ebbrezza! Delirio! Voi siete così impassibili, così estranei a tutto questo, voi uomini per bene! Rimproverate il bevitore, condannate l'insensato, passate dinanzi a loro come il sacrificatore e ringraziate Dio, come il fariseo, perché non vi ha fatto simili a loro! Più di una volta io sono stato ebbro, le mie passioni non sono lontane dal delirio, e di queste due cose io non mi pento perché ho imparato a capire che tutti gli uomini straordinari che hanno compiuto qualcosa di grande, e che pareva impossibile, sono stati in ogni tempo ritenuti ebbri o pazzi.
Ma anche nella vita comune, è insopportabile sentir dire ogni volta che qualcuno sta per compiere un'azione libera, nobile, inattesa: quell'uomo è ubriaco, è pazzo! Vergognatevi, uomini sobri e savi!»
«Ecco le tue solite fantasie, disse Alberto, tu esageri tutto, e in questo caso hai per lo meno il torto di paragonare il suicidio di cui ora è questione, con delle grandi gesta, mentre esso non può esser considerato che come una debolezza. Poiché certo è più facile morire che sopportare con fermezza una vita dolorosa».
Ero sul punto di interrompere il discorso, perché niente mi mette così fuori dei gangheri come vedere qualcuno armato di insignificanti luoghi comuni mentre io parlo con tutto il cuore. Pure mi contenni, perché molte volte ho sentito addurre quell'argomento e me ne sono indignato: risposi dunque alquanto vivamente: «Tu lo chiami una debolezza? Ti prego, non lasciarti ingannare dall'apparenza. Puoi chiamare debole un popolo che geme sotto il giogo di un tiranno se infine, fremendo, spezza le sue catene? Un uomo che nel terrore di vedere la sua casa in preda alle fiamme sente le sue forze centuplicate, e solleva facilmente dei pesi che a mente calma potrebbe appena muovere? e uno che nel calore dell'offesa ne affronta sei, e li vince, tu lo chiami debole? E, mio caro, se lo SFORZO costituisce la forza, perché lo sforzo supremo dovrebbe essere il contrario?».
Alberto mi guardò e disse: «Non te ne avere a male, ma gli esempi che tu porti non hanno nulla a vedere col nostro discorso». «Può darsi, risposi, già più volte mi hanno detto che il mio modo di ragionare è spesso privo di logica. Vediamo se possiamo in altro modo figurarci quale coraggio deve avere un uomo che si decide a gettare il fardello della vita, che è generalmente gradito. Perché solo in quanto noi sentiamo una cosa, possiamo parlarne con giusto criterio.
La natura umana, continuai dunque, ha i suoi limiti: essa può sopportare la gioia, la sofferenza, il dolore fino a un certo punto, e soccombe se questo è oltrepassato. Non è questione di stabilire se un uomo è debole o forte, ma di vedere se egli può sopportare la sofferenza che gli è imposta, sia morale che fisica; e a me pare tanto strano dire che un uomo è vile perché si toglie la vita, come troverei assurdo dire che è tale perché muore di febbre maligna».
«Che paradosso!» esclamò Alberto.
«Non tanto quanto tu pensi, ribattei. Ammetterai che noi chiamiamo mortale una malattia la quale assale la nostra costituzione naturale in modo che le sue forze sono in parte distrutte e in parte sminuite nella loro attività: sicché essa non può in alcun modo aiutarci né riattivare, per mezzo di alcuna risoluzione, il corso della vita. Ebbene, amico mio, applichiamo questo allo spirito. Vedi quante impressioni agiscono sull'uomo nella sua limitata sfera, quante idee penetrano in lui, finché una crescente passione non gli toglie ogni serena forza di pensiero e lo trascina alla sua perdita. Invano l'uomo libero da ogni cura e in possesso della sua ragione lo guarda con pietà, invano cerca di convincerlo con la persuasione. E' come un uomo sano che pur stando al letto di un infermo non può infondergli la minima parte delle sue forze».
Ma per Alberto queste erano idee troppo generali. Gli raccontai allora di una fanciulla che da poco tempo era stata trovata morta annegata, e ripetei la sua storia. Era una buona giovane creatura, cresciuta nell'angusta cerchia delle occupazioni casalinghe, nel lavoro di tutta la settimana, e che non aveva altra prospettiva ed altro piacere oltre quello di andare a volte la domenica, con le sue compagne, a passeggiare intorno alla città, abbellita da qualche ornamento messo insieme a poco a poco; di ballare forse una volta nelle feste solenni e di chiacchierare qualche ora da una vicina con vivacità ed interesse a proposito di una disputa o di una maldicenza. L'ardore della sua giovinezza le fa provare infine degli intimi desideri accesi dalle lunsinghe degli uomini. Le sue antiche gioie le sembrano sempre più insipide, e infine incontra un uomo verso il quale è irresistibilmente spinta da un sentimento sconosciuto e su cui posano tutte le sue speranze; dimentica il mondo intero, non ode, non vede, non sente che lui, non aspira che a lui, l'Unico. E poiché non è corrotta dai vuoti piaceri di un'incostante vanità, il suo desiderio va dritto allo scopo, vuole essere di lui, vuole in un eterno legame raggiungere tutta la felicità che le manca e godere tutte le gioie alle quali aspira. Ripetute promesse, che coronano tutte le sue speranze, ardite carezze che accendono il suo desiderio, dominano tutta la sua anima; lei è in preda a un oscuro sentimento che le fa pregustare ogni gioia, si esalta al massimo grado, stende infine le braccia per cingere l'oggetto dei suoi desideri... e il suo amato la abbandona. Lei si stupisce e, come insensata, le pare di essere davanti a un abisso: tutto è tenebre intorno a lei; non ha nessun avvenire, nessun conforto, nessuna speranza, perché l'ha lasciata colui nel quale si sentiva vivere. Non vede il vasto mondo che si stende davanti a lei, né i molti che potrebbero consolarla della perdita subìta; si sente sola, abbandonata da tutti al mondo, e cieca, oppressa nell'angustia dell'orribile miseria del suo cuore, si precipita per distruggere tutti i suoi tormenti in una morte annientatrice. Vedi, Alberto, è questa la storia di molte persone! e non ti pare proprio lo stesso caso di una malattia? La natura non trova nessuna via d'uscita dal labirinto delle forze turbate e contrarie, e l'uomo deve morire.
Guai a colui che potrà dire, vedendo un simile evento: che pazza! se avesse aspettato, se avesse lasciato agire il tempo, la sua disperazione si sarebbe placata, qualche altro si sarebbe trovato per consolarla! Sarebbe lo stesso che dire: quel pazzo, è morto di febbre! se avesse aspettato finché le forze gli fossero ritornate, i succhi vitali purificati, e calmato il tumulto del suo sangue! Egli vivrebbe ancora oggi e tutto sarebbe andato bene!».
Alberto, a cui il paragone non pareva appropriato, mosse ancora qualche obiezione; e fra l'altro disse che io avevo parlato di una semplice giovinetta, ma che egli non capiva come si sarebbe potuto scusare un uomo di criterio, di mente non così limitata, e che sa cogliere un maggior numero di rapporti.
«Amico mio, esclamai, l'uomo è uomo, e quel poco d'intellligenza che egli può avere serve poco o niente quando arde la passione e l'essere umano è spinto verso i confini della sua forza. Tanto più... Ma ne parleremo un'altra volta» dissi, e presi il cappello... Il mio cuore era gonfio e ci lasciammo senza esserci compresi. Ma del resto in questo mondo è difficile che gli uomini si comprendano.
Tutto, tutto si popola di mille forme diverse; e gli uomini si rinchiudono sicuri nelle loro casette e immaginano di essere signori del mondo. Povero pazzo che giudichi ogni cosa ristretta perché sei così piccolo! Dalla montagna inaccessibile al deserto che nessun piede ha calcato, all'estremo dell'ignoto oceano, alita lo spirito dell'eterno creatore e si rallegra di ogni grano di polvere che lo comprende e vive! Oh quante volte avrei voluto allora sulle ali della gru che volava sul mio capo, essere trasportato alla riva del mare sconfinato, bere alla coppa spumante dell'infinito l'ardente gioia di vivere, e solo per un istante far penetrare nel mio seno ristretto una stilla della beatitudine che prova l'essere il quale tutto crea in sé e per sé.
Fratello, il solo ricordo di quelle ore mi fa bene. Lo stesso sforzo che io faccio per risvegliare in me quei sentimenti ineffabili, per esprimerli ancora eleva l'animo mio, e mi fa doppiamente sentire l'angoscia dell'ora presente.
Mi sembra che dinanzi alla mia anima sia stato tirato un sipario e lo spettacolo della vita sconfinata si cambia davanti a me nell'abisso della tomba eternamente aperta. Tu puoi dire: questo esiste! quando tutto passa, quando ogni cosa scompare con la velocità del fulmine, e così raramente conserva l'integrità del suo essere, ed è travolta nel torrente e annientata contro le rocce? Non passa un istante che non distrugga te e i tuoi, non uno in cui tu non sia, non debba essere un distruttore; la più innocente passeggiata costa la vita a mille poveri insetti, un passo distrugge gli edifici delle formiche faticosamente costruiti, e seppellisce in una tomba ingloriosa tutto un piccolo mondo. Ah non le grandi rare catastrofi del mondo mi commuovono, non le inondazioni che inghiottiscono i vostri villaggi, non i terremoti che distruggono le vostre città; mi atterrisce la forza annientarice che è nascosta nell'essenza della natura; la quale non produce nessuna cosa che non sia distrutta dalla sua vicina, o che da se stessa non si distrugga. Così io vado barcollante e tormentato fra il cielo e la terra e le forze creatrici che mi circondano: e vedo soltanto un essere mostruoso che eternamente divora e rumina.
Addio! è una magnifica estate; spesso salgo sugli alberi da frutta nel giardino di Carlotta, con una lunga pertica, e raggiungo le pere sulla cima. Lei sta sotto l'albero e prende i frutti che io lascio cadere giù.
Lei dorme tranquilla, e non pensa che non mi vedrà più. Mi sono strappato da lei, sono stato forte abbastanza per non tradire il mio segreto in un colloquio di due ore. E, mio Dio, quale conversazione!
Alberto mi aveva promesso di trovarsi in giardino con Carlotta subito dopo cena. Ero in terrazza, sotto i grandi castagni, e guardavo il sole che per l'ultima volta vedevo tramontare di là della valle amata, di là del mite ruscello. Tanto spesso ero stato lì con lei a contemplare il magnifico spettacolo... E ora! Andavo su e giù per quel viale che mi era caro: una segreta, simpatica attrattiva mi aveva trattenuto in quel luogo prima che io conoscessi Carlotta; e qual piacere era stato per noi, al principio della nostra relazione, scoprire reciprocamente la nostra preferenza per quel luogo, uno dei più romantici creati dall'arte!
Prima di tutto, fra i castagni, si gode di una bella vista... ma mi ricordo di averti molte volte scritto di queste alte pareti di faggi, che limitano il viale che diventa sempre più cupo a causa di un boschetto vicino, finché tutto finisce in una piazzetta chiusa intorno a cui sembrano alitare tutti i fremiti della solitudine. Io sento ancora il fascino segreto che provai la prima volta che vi entrai, mentre splendeva alto il sole di mezzogiorno; presentivo che esso doveva esser per me teatro di beatitudine e di dolore.
Avevo già trascorso una mezz'ora immerso nei tristi e dolci pensieri della separazione e del rivedersi, quando li sentii salire sulla terrazza. Corsi loro incontro e, con un brivido, presi la mano di lei e la baciai. Eravamo appunto arrivati, quando la luna si levò dalla collina coperta di cespugli; conversammo un poco e poi giungemmo al gabinetto oscuro. Carlotta entrò e si sedette, Alberto si mise vicino a lei e io pure; ma la mia inquietudine non mi permise di stare a lungo seduto; mi alzai, mi misi davanti a Carlotta; feci qualche passo in su e in giù, mi sedetti di nuovo: era uno stato di angoscia. Lei ci fece osservare il bell'effetto di luna che dal fondo del boschetto di faggi illuminava davanti a noi tutta la terrazza; il colpo d'occhio era splendido e ci colpiva ancor più, in quanto eravamo avvolti da una profonda oscurità. Eravamo silenziosi e, dopo qualche tempo, lei cominciò a dire: non posso mai passeggiare al chiaro di luna senza pensare a tutti i miei morti, senza esser presa dal sentimento della morte e dell'avvenire. Noi avremo una seconda vita, proseguì con accento forte e sentito; ma, Werther, ci potremo ritrovare, riconoscere? Che cosa pensate, che ne dite voi?
- Carlotta - dissi, e le tesi la mano mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime - ci rivedremo; qui e lassù, noi ci rivedremo. - Non potei dire altro. Guglielmo, doveva lei farmi questa domanda mentre io avevo in cuore l'angoscia dell'addio?
Lei continuò ancora: e i nostri cari assenti sanno, sentono che quando noi siamo felici li ricordiamo con caldo affetto? L'immagine di mia madre mi sta sempre dinanzi quando, nella serata tranquilla, i suoi bambini, i miei bambini, sono rimasti intorno a me come erano riuniti intorno a lei. Allora io guardo il cielo con nostalgiche lacrime, e desidero che lei possa vedere almeno un istante come mantengo la parola che le ho dato all'ora della morte, quando le giurai di essere la madre dei suoi bambini. Con profondo sentimento io esclamo: perdonami, se non sono per loro quello che tu stessa saresti stata. Pure io faccio tutto ciò che posso; essi sono almeno vestiti, nutriti e, quel che più importa, curati e amati. Se tu potessi vedere la nostra unione, benediresti con la più calda riconoscenza quel Dio a cui con le supreme amarissime lacrime chiedesti la felicità dei tuoi figli...
Così diceva Carlotta... o Guglielmo, chi può ripetere quello che diceva? Come può una lettera fredda e morta dare un'idea della celeste essenza del suo spirito? Alberto l'interruppe dolcemente: vi commuovete troppo, Carlotta. So quanto questi pensieri vi sono cari, ma vi prego... Oh Alberto, disse lei, io so che tu non hai dimenticato le sere che passavamo seduti intorno al tavolino rotondo, quando il babbo era in viaggio, e avevamo mandato a letto i bambini. Tu avevi spesso un buon libro, e qualche volta venivi a leggerci qualcosa. Lo scambio di idee con quell'anima sublime non superava ogni dolcezza? Dio vede le lacrime che verso nel mio letto quando gli domando di farmi somigliare a mia madre!
Carlotta, esclamai, mentre mi gettavo ai suoi piedi e le prendevo la mano inondandola di pianto, Carlotta, la benedizione di Dio e lo spirito di tua madre stanno su di te! - Se l'aveste conosciuta, disse lei stringendomi la mano, era degna di esser conosciuta da voi. - Credetti venir meno: mai una così grande, alta parola mi era stata rivolta.
Carlotta disse ancora: quella donna doveva morire nel fiore degli anni, quando il suo bimbo più piccolo non aveva ancora sei mesi! La malattia fu breve, lei era tranquilla, rassegnata; solo i suoi figli le facevano pena, specialmente il più piccolo. Quando sentì avvicinarsi la fine, e mi disse: falli venir su; ed io feci entrare i più piccoli ignari, i più grandi fuori di sé dall'angoscia, quando furono attorno al letto, e giunse le mani e pregò per loro, poi li baciò uno dopo l'altro, e li mandò via, mi disse: «Sii la loro mamma», io le diedi la mano, in segno di promessa. «Tu prometti molto, figlia mia - mi disse - il cuore di una madre, l'occhio di una madre! Ho visto spesso, dalle tue lacrime riconoscenti, che tu comprendi quello che valgono. Li avrai per i tuoi fratelli, e abbi per tuo padre la fedeltà e l'obbedienza di una sposa. Tu li consolerai».
Domandò di vederlo: egli era uscito per nasconderci il dolore che provava: era disfatto... Tu eri nella camera, Alberto. Lei sentì camminare qualcuno, domandò chi era, e posò su noi due uno sguardo tranquillo e consolato, pensando che saremmo stati felici insieme... Alberto le gettò le braccia al collo, e la baciò esclamando: lo siamo, lo saremo! Werther - disse Carlotta - quella donna doveva morire! Dio, quando penso che ci lasciamo portar via così quelli che sono più cari al nostro cuore; e nessuno lo sente così fortemente come i bambini, i quali a lungo si lamentarono perché gli uomini neri avevano portato via la mamma.
Si alzò; io ero rientrato in me stesso, e tremavo; rimasi seduto, e tenni stretta la sua mano. «Bisogna rientrare, disse Carlotta, è l'ora» e volle liberare la sua mano, ma io la trattenni con più forza. «Ci rivedremo, gridai, ci ritroveremo, e FRA TUTTI ci riconosceremo. Vado via, continuai, vado via volontariamente...»; pure, se avessi dovuto dire PER SEMPRE, non avrei potuto.
«Addio Carlotta! Addio Alberto! Ci rivedremo». «Domani, penso», disse lei scherzando. Sentii questo DOMANI. Ah, lei non sapeva, quando ritirò la sua mano dalla mia... Si allontanarono lungo il viale; io rimasi fermo; li seguii con lo sguardo nel chiarore della luna, mi gettai a terra, piansi, e mi rialzai improvvisamente; corsi sulla terrazza e vidi ancora da lontano, all'ombra dei grandi tigli, il suo abito bianco luccicare presso la porta del giardino; tesi le braccia; lei sparì.